“Poco più di un anno fa si pensava che l’inverno fosse ormai alle spalle ed eravamo tutti pronti a rivivere i sentimenti di rinascita evocati da ogni primavera. Invece accadde improvvisamente ciò che tutti sappiamo: le ombre di un nuovo tempo si allungarono sulle nostre vite riportandoci nuovamente indietro, facendoci ripiombare nel cuore di una singolare e interminabile stagione fredda, più buia che mai. Dovemmo segregarci in casa, rintanarci come fanno gli animali del bosco in fuga dai grandi predatori, chiuderci nelle nostre profonde angosce che ci hanno rapidamente sbaragliato”.
Da questa riflessione di Matteo Righetto nasce la web serie L’anno dei sette inverni, la nuova produzione digitale del Teatro Stabile del Venetodisponibile a partire dal 15 marzo, ogni giorno, sui canali social del Teatro, Facebook, Instagram e YouTube, e che racconta il periodo di isolamento trascorso dallo scrittore padovano nel borgo dolomitico di Colle Santa Lucia nel Fodòm, durante i lunghi mesi della pandemia.
Un piccolo paese di montagna con meno di 400 abitanti è il luogo in cui Righetto ha vissuto tutte le fasi dell’emergenza sanitaria a partire dal primo lockdown di marzo 2020 fino ad oggi. Un tempo infinito in cui di fatto è come se fossero passati per tutti, indipendentemente dal luogo, 7 lunghi inverni in letargo, distanti dalle relazioni umane, dalla quotidianità e nel caso dello scrittore solo a contatto con la natura e la sua montagna. Un’esperienza quasi eremitica che ha dato vita alle sette puntate della web serie diretta da Marco Zuin e con le musiche di Giorgio Gobbo.
Girati in una baita del posto, tra i boschi del Fodòm e la valle di Colle Santa Lucia gli episodi riportano alla luce la relazione ancestrale che lega l’uomo alla natura, un rapporto grazie al quale Righetto riscopre l’attenzione verso le piccole cose, il silenzio e la semplicità della montagna, i ricordi di famiglia e dell’infanzia, elementi su cui riflette per tendere a una nuova humanitas capace di rifondarsi sulla conversione ecologica.
E’ possibile vedere tutti gli episodi sulla piattaforma gratuita Backstage
È grazie al camminare, all’andare a piedi, all’obbligo di una velocità ridotta, che l’uomo dall’inizio dei tempi ha potuto incontrare l’altro e conoscere. È la scelta che fa il protagonista de L’anno dei sette inverni quella di camminare, di esplorare. Catapultato in un presente senza riferimenti storici precisi, si ritrova a vivere dentro un inverno che prosegue e di cui non si conosce la fine. L’isolamento in cui si trova è condizionato tanto dal paesaggio attorno a lui che dalla solitudine. Attraverso la sua voce seguiamo il suo pensiero: con le parole, le immagini e la colonna sonora, abbiamo cercato di costruire un’atmosfera sospesa senza tempo, una bolla temporale. È metafora di questo presente, legata al periodo che abbiamo vissuto e stiamo vivendo, un periodo fatto di sospensione forzata, incognite, un quotidiano fatto di azioni semplici, senza l’attesa di risposte o soluzioni.
C’è poi un percorso parallelo al camminare del protagonista: i ricordi. Un breve percorso visivo irrompe in due dei sette episodi attraverso i filmati di famiglia, il privato in formato ridotto, in pellicola super 8, filmato nei primi anni Ottanta dal padre di Matteo Righetto, Cesare. Si tratta di un tema interesse che ho sviluppato da poco più di un anno, questo isolamento mi ha fatto riflettere sul senso del passato e dei ricordi in un periodo di isolamento: senza ricordi sarebbe molto più difficile sopportare il fatto che non sappiamo quando finirà. Attraverso i filmati di famiglia vediamo irrompere non solo la primavera e il tempo dell’infanzia, ma anche i riti collettivi di un’epoca e di un’Italia più spensierata, complice l’essere momenti felici legati alle gite vacanziere, in cui si respira lo stupore della vita quotidiana. Un sentimento che nel nostro personaggio è rimasto: senza confidare solo nella speranza, infatti, ha ancora la voglia di emozionarsi davanti ad un grande albero o al miracolo dell’alba finita la tempesta.
Marco Zuin
Ho vissuto gran parte di questo tempo in un piccolo borgo dolomitico dal quale ho osservato con preoccupazione e smarrimento i fatti e le grandi trasformazioni che giorno dopo giorno hanno obbligato ognuno di noi, l’umanità intera, a rivedere e ripensare il nostro modo di stare al mondo. L’isolamento di cui sono stato personalmente protagonista mi ha suggerito parole umili riferite alla necessità che tutti abbiamo di ristabilire un equilibrio con l’ambiente guardando a noi stessi con una nuova consapevolezza etica e una improcrastinabile assunzione di responsabilità. Tuttavia le voci che in quei giorni si alzavano “da valle” parlavano incredibilmente d’altro, quasi sempre incapaci di comprendere fino in fondo ciò che stava e tuttora sta accadendo. Mentre ascoltavo queste lingue frenetiche e chiassose trovavo intollerabile che si continuasse a parlare ossessivamente della pandemia rimuovendone radicalmente le cause.
L’alta montagna è il luogo del silenzio antropico, della semplicità, della rilettura di sé, e per questi motivi ho avuto la possibilità, isolato quassù, di portare avanti un’intima e personale riflessione sul rapporto tra umano e non-umano iniziata ben prima che questa malattia ci travolgesse.
Ecco allora che quell’isolamento, pur nel dramma generale di ciò che stava accadendo intorno a me, si è rivelato come preziosa occasione per imparare daccapo a cogliere e apprezzare il valore della relazione ancestrale tra i nostri piccoli gesti e gli elementi naturali, come l’accensione di un fuoco, lo sfioramento di un larice, l’ascolto del vento e la contemplazione della neve che scende dal cielo; nel solco della poetica di Rigoni Stern, Ralph Waldo Emerson e soprattutto John Muir, per il quale tutto in natura ha la capacità di suscitare meraviglia e di rimandare a una lettura ulteriore, tanto semplice quanto vasta e densa di significato. Come correlativi oggettivi che conducono a significati universali, ecco che l’anima di queste cose semplici mi si è definitivamente rivelata come un inconfondibile richiamo a una nuova humanitascapace di rifondarsi sulla conversione ecologica, così come la definì Alexander Langer, sulla presa di coscienza di un’origine comune e di una mutua appartenenza, per un nuovo futuro auspicabilmente condiviso da tutti. Solo questo ha saputo ridarmi speranza, dove tale sentimento non va confuso con un ingenuo ottimismo autoassolutorio nell’illusione che tutto andrà bene, bensì interpretato come un atteggiamento di consapevolezza per cui certe cose debbano essere fatte comunque, a prescindere da quello che sarà il nostro destino.
Matteo Righetto
Conosco il suono dell’inverno e so dove andarlo a scovare.
Quest’anno, in montagna, la prima neve è arrivata precoce. È giunta inaspettata come i fili bianchi che appaiono tra i capelli, nello specchio in un mattino d’autunno. Tuttavia “L’anno dei sette inverni” non racconta del ciclo naturale delle stagioni bensì della sua distorsione. Narra di un tempo congelato fino a deformarsi in un inverno che dura ormai da più di un anno. Prima ancora di posare le dita sulla tastiera per cercare atmosfere e melodie, ho avvertito che la colonna sonora avrebbe dovuto far dialogare suoni acustici (archi, pianoforte) con rumori e alterazioni digitali.
Mi sono così recato nei boschi dell’altopiano di Asiago per campionare il crocchiare della neve sotto gli scarponi. A seconda delle ore del giorno e della notte (e di numerosi altri fattori), essa produce suoni sensibilmente diversi. Ne ho tratto tessiture sonore e sequenze ritmiche elaborate digitalmente. Solo una parte piccola di questo lavoro è finita nella stesura definitiva della colonna sonora.
Tuttavia le ore trascorse nel gelido nido spinoso del bosco mi hanno raccontato come il sussurro della selva trovi voce nel suono del flauto, attributo fondamentale di Pan. Il richiamo dei grandi spazi naturali invece è cantato dal corno, lo strumento che più di tutti ha la capacità di evocare la lontananza.
«Certo,» ho pensato. «È il tempo dell’uomo che si è inceppato, non quello della natura.»
Una delle ultime sere di questo ritiro montano, forse suggestionato dalla solitudine del mio vagare, ho avuto una visione musicale. Ho immaginato un corteo di fantasmi darsi appuntamento tra i ruderi del castello di Andraz per danzare sette giri di valzer. Arpeggiando la chitarra per accompagnare questa apparizione ho trovato la melodia che fa da leitmotiv ai sette episodi della serie.
A questo punto non mi restava che tornare a Padova nel mio studio per lasciare che queste idee si materializzassero – come mi è consueto – lavorando alla maniera di un artigiano che realizzi un oggetto già presente nella sua mente.
Giorgio Gobbo